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Presentazione di Maria Grazia Calandrone

al concerto del 4 febbraio 2010 alla Sala Pintor di Roma

 

La musica di Linda è generosa come una casa aperta e l’apertura della quale noi tutti godiamo credo sia il segno di una compiuta autoterapia musicale: si percepisce che in questi suoni vive una persona che è passata attraverso tutte le lontananze e i distacchi e ne ha dedotto che val la pena scoprire sempre nuove vicinanze, anche se destinate alla perdita. Il suo disco è il concerto di un esilio che è stato elaborato come un lutto : l’esilio fisiologico dall’infanzia per lei coincide con l’esilio da una terra estrema ed estremamente diversa da quella dove oggi vive la sua vita adulta, perché Linda viene da Casablanca, da dove partì ventenne.

Il suono più forte che da allora è rimasto infiltrato nella sua musica è quello dei vasti spazi che porta l’oceano. Il ritmo vitale dell’Atlantico è onnipresente nei brani e nei disegni del libretto, composti per l’occasione dal figlio Marc – e un’acqua tanto grande da essere solcata è sottintesa nel titolo: I sogni spingono le vele. Dunque un mare tanto vero e talmente introiettato da diventare anche metaforico: il mare è il luogo solcato dai sogni. Lo spazio che Linda ha avuto negli occhi l’ha indotta a una libertà che è stata assimilata come un’abitudine. Dunque siamo in un continuo altrove che continuamente diventa accessibile e conosciuto. Mi figuro di entrare in questa musica come in una stanza con molti tappeti e finestroni aperti sull’Atlantico. Ma ci sono – sull’oceano e a guardare l’oceano – le acque interne ai corpi delle gravide, come abbiamo detto. Acque oceaniche e acque puerperali.

Il microcosmo e il macrocosmo, l’Oriente e l’Occidente. Linda è cresciuta nella musica e in una commistione di culture, orientale e occidentale: la sua sintesi personale sarà evidente nella musica che ascoltiamo. Basta l’elenco degli strumenti usati: voce, pianoforte, violoncello (che spesso raddoppia la voce)darbuka e daff –a dimostrare come si siano mescolati  nella personalità musicale di Linda la sua terra di origine e i suoi studi classici. 

Linda dichiara inoltre di intendere la musica come il modo più diretto per condividere la propria vita di dentro.

Infatti si ama la sua musica perché è disarmante. Esplicita e rassicurante insieme, accogliente.

Così come chiari, semplici e aperti sono i testi in lingua francese la sua madrelingua.

Anche i colori che stanno in copertina riassumono il senso del concerto: sono ocra come la terra desertica e azzurri come gli oceani il ritmo delle percussioni e dei battiti di mani e i piccoli corali, voce su voce, della sua musica. E capiamo che questo disco, molto generoso di tracce, è pensato in ogni suo dettaglio, nell’alternarsi di musica strumentale e canto, è necessitato dall’interno di un cuore umano, è il contenitore profondo della sua autrice, che lo ha autoprodotto per l’esigenza di condividersi. Linda compone per acconsentire e suona per comunicarci il suo consenso.

Credo allora che il disco vada ascoltato come il concerto: dal principio alla fine, per l’esattezza con la quale veniamo condotti in un universo umano, fatto di una malinconia che riappacifica con il mondo perduto perché ci porta in una dimensione dove il passato e il presente sembrano coesistere: l’infanzia propria e l’infanzia dei propri figli, la nascita e le partenze via mare, il Marocco e il quartiere romano dove Linda vive, con la sua musica tattile e leggera. Tutto ciò suscita lo stato emotivo del bene. Esilio, lontananze, perdite: chi è stato abituato dalla vita a perdere, dopo il momento del pianto volta la carta – la sua carta d’imbarco – a fin di bene, cioè a favore della vita ed ecco che Linda ci dice che fin che abbiamo qualcosa da desiderare, da aspettare, un amore o un luogo perduti o lontani da chiamare, siamo creature vive.

Maria Grazia Calandrone

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